The Chernobyl Diares, la recensione: fa paura…al pensiero esca il sequel

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Di Luca Fabbri

Che cosa si può dire di questo horror di inizio estate? Anzitutto, che al signor Oren Peli bisognerebbe fare un monumento, tutto quello che tocca si trasforma in oro, il nome è diventato una garanzia. Per chi non conoscesse l’individuo, basti dire che costui è responsabile, di riffa o di raffa, delle più colossali stramberie del genere apparse in sala nell’ultimo lustro. Le quali, ça va sans dire, hanno finito per sfondare al botteghino, come e più di svariati kolossal. Chi non ha sentito parlare della serie Paranormal Activity o ha un età compresa tra gli 80 e i 100, o fa lo gnorri, oppure vive in una caverna.

Non solo: l’uomo va elogiato perché puntualmente riesce a far le nozze con i fichi secchi. Tutti i capitoli di Paranormal Activity hanno avuto costi da Panda 4×4, per poi essere ripagati con incassi da MaseratiQuesto Chernobyl Diaries non fa eccezione: appena 1 milione di dollari spesi per girare l’amabaradan, ed ecco, subito, pienone in sala nel primo week end di proiezione negli Stati Uniti. Ebbene, siccome da qualche anno a questa parte siamo un po’ tutti in braghe di tela, ci permettiamo di suggerire a Mario Monti la candidatura del carneade regista, qui nel ruolo di produttore, all’Economia.

Dato a Cesare quel che è di Cesare, sarà pure il caso di parlare del film vero e proprio. E qui cominciano i dolori. Perché le conseguenze di un budget limitato si vedono eccome. Gli effetti speciali paiono vino annacquato, tutto è girato quasi sempre al buio, vuoi per aumentare la tensione, probabilmente per non rischiare di far vedere troppo le sembianze delle aberrazioni di turno. Che non a caso si mostrano in faccia appena un paio di volte. Ma quel che è peggio è che la pellicola, per non farci mancare niente, centra in pieno, uno dopo l’altro, tutti i cliché peggiori del genere: silenzi di tomba appena prima di scoprire cosa si nasconde dietro l’angolo, creando il solito effetto “1, 2, 3, BHU!”; comitive di rutilanti cialtroni, composte esclusivamente da ragazzine col ben di Dio fronte e retro ben in vista, maschi fatti e strafatti dal cervello a bagno maria; buone braccia sottratte all’agricoltura che si condannano a morte dopo aver esclamato il classico “dividiamoci!”, quando anche un bambino capirebbe che per sopravvivere occorre rimanere insieme; recitazioni da pomodori in faccia, superate solo dalla vergognosa inverosimiglianza delle sceneggiature; finali poveri di idee, mai un guizzo, solitamente senza superstiti, ecatombi cinematografiche.

Eppure ci si poteva persino illudere di guardare qualcosa di vagamente diverso dalla solita solfa. Perché l’arma vincente del film è l’ambientazione: Prypiat. Ossia la città-dormitorio costruita su misura per ospitare i lavoratori di Chernobyl. I quali 24 ore dopo il disastro sono stati buttati giù dal letto dalle autorità sovietiche, costretti a fare fagotto e ad abbandonare le loro dimore. Da allora nessuno o quasi ha più messo piede da quelle parti. Ciò, premesso, ci si chiede: quale essere umano con le rotelle ben oliate trascorrerebbe parte delle proprie ferie nella suddetta città fantasma? Non era meglio starsene a Kiev, stuprare il portafogli per avere da un bagarino i biglietti per la finale di Euro 2012, magari dopo aver fatto un po’ di sano turismo sessuale?

Ma figuriamoci, per i protagonisti di questo filmetto godere nella vita è reato. Tanto vale salire sul pulmino Wolkswagen da figli dei fiori, e via dalla pazza folla (giusto per creare l’atmosfera Lonely Planet). Sennonché nel giro di qualche ora accade l’irreparabile: la guida che accompagna la ciurma di pisquani ci lascia le penne per circostanze ovviamente misteriose e il veicolo idem. Oddio e adesso che facciamo? Non sarà pericoloso prolungare il pic-nic con tutte le radiazioni che si respirano in questo posto dimenticato dal mondo? E cosa diavolo è quella figura che ci fissa dalla finestra lassù al quinto piano? Ma non si era detto che Prypiat era disabitata? Aridatece i soldi della gita.

E dato che si siamo pure quelli del biglietto del cinema. Perché dopo mezz’ora tutto sa di già visto e partono gli sbadigli. Certo, fare horror riusciti nel 2012 è un’impresa, ormai qualsiasi nefandezza è stata inscenata. Però l’odore di stantio comincia a mettere la nausea, non si può continuare a prendere a schiaffi l’intelligenza altrui, ripetendo 800 volte lo stesso film. Una fetta del pubblico potrebbe persino accontentarsi col giochino della scommessa su chi muore per primo (in genere la tettona o il bianco che fa il duro o il nero) e per ultimo (di solito l’adolescente che nella sua esistenza ogni tanto si pone domande). Tutti gli altri potrebbero morire di paura giusto per la scoperta ventilata dal finale: il possibile sequel.

Voto: 4

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