The Rum Diary, la recensione: un film sconclusionato e mediocre

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Di Luca Fabbri

Sarà banale dirlo, ma è proprio vero: alle volte si va al cinema solo perché c’è questo o quell’altro attore da non perdere. E’ il caso di The Rum Diary. Chi si sarebbe mai cagato questo filmetto sconclusionato, mediocre, senza capo nè coda, se il protagonista fosse stato un pinco palla qualsiasi e non Johnny Depp? Perché, tolta la sua interpretazione, resta ben poco da salvare della pellicola, la quale si permette, per soprammercato, il lusso di tirarla per le lunghe: due ore. Sbadigli in platea e tutti a casa.

Non siamo – come spesso accade, ahinoi – tra quelli che hanno letto il libro da cui la trama origina; ergo,  per quel che ci riguarda il canovaccio contenuto nel romanzo di S. Thompson può essere indifferentemente un capolavoro o una bufala, rimettiamo la sentenza a chi ne sa di più. Ma un fatto resta: alla sceneggiatura del regista Bruce Robinson sembra mancare costantemente qualcosa. Il film parte in quinta e diverte, poi incespica e si perde in mille rivoli di cui non si comprende l’utilità o la ragione e finisce per non centrare alcuni snodi importanti. Zoppo, monco.

Risultato: alla fine si esce dalla sala con un montagna di interrogativi in testa, cui tuttavia, causa stanchezza, non si ha alcuna voglia di rispondere.

Dunque, siamo a Porto Rico nel 1960. Il beone Paul Kemp passa la sua vita a scrivere libri che nessuno legge, quindi decide di riciclarsi in uno scalcinato giornale dell’isola, guardacaso sull’orlo del fallimento. Qui, tra una bottiglia e l’altra, scopre che il mondo della carta stampata è lo stesso che a New York: vuoi arrivare a fine mese con lo stipendio in tasca e avere il tuo orticello? Non fare troppe domande, mai pestare i piedi agli inserzionisti, riponi gentilmente in un cassonetto le tue smanie da segugio di razza, smettila di prenderti troppo sul serio e accetta la realtà per quello che è. Edulcora, ometti. E soprattutto: giù di marchette.

Un po’ come quella che gli propone il marcantonio Sanderson (Aaron Eckhart), affarista col pelo sullo stomaco e un conto corrente da capogiro almeno quanto la bionda che si spupazza. L’accordo: tu scrivi salamelecchi sull’ecomostro a cinque stelle che voglio costruire a ridosso della spiaggia e io ti faccio sfondare. Proposta allettante quella del riccone, almeno quanto le moine della sua signora, bomba sexy a cui sarebbe disonesto resistere.  Riuscirà il reporter alcolizzato a soffiare al milionario la fanciulla da sotto il naso? E soprattutto: salverà l’isola dall’avanzata delle ruspe a suon di inchieste oppure cederà al denaro, sterco del demonio?

Insomma, Depp e Eckhart ce la mettono tutta, fanno il loro mestiere senza infamia e senza lode, ma tra qualche tempo nessuno si ricorderà  di loro per questo film. Stupefacente il tasso di improbabilità: una notte Depp si ritrova in giacca e cravatta a tirare avanti un pedalò mentre si scola il consueto litro di rum e guarda te chi esce dall’acqua? La biondissima. Senza costume. Morale: passeremo le sere d’estate in riviera a pedalare sbronzi in mezzo all’Adriatico. Perché certe cose a noi non possono capitare?

Voto: 4

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